Data

Date:
06-12-2010
Country:
Italy
Number:
R.G. 4156/00
Court:
Tribunale Nola
Parties:
--

Keywords

DAMAGE CLAIM BETWEEN TWO ITALIAN PARTIES - REFERENCE TO THE UNIDROIT PRINCIPLES AS A MEANS OF INTERPRETING THE APPLICABLE DOMESTIC LAW (ITALIAN LAW)

TERMINATION - PARTY'S CLAIM FOR RESTITUTION OF PERFORMANCE RENDERED DEPENDENT ON PARTY'S POSSIBILITY OF MAKING RESTITUTION IN KIND OF THE OTHER PARTY'S PERFORMANCE RECEIVED (GENERIC REFERENCE TO UNIDROIT PRINCIPLES AND REFERENCE TO ARTICLE 81(A) CISG)

Abstract

Patient A contacted Dentist B for dental work. Following B’s advice A agreed to undergo a surgery for the application of a dental implant. B's work however caused a serious infection that forced A to undergo a new surgery after the extraction of five teeth. As a conseguence A brought an action against B for medical malpractice, claiming, in addition to damages, restitution of the fee paid for the dental work.

The Court, after having ascertained a diagnostic error of B, ordered the latter to pay damages but rejected A’s claim for restitution of the fee paid. In support of its decision the Court pointed out that according to a well established principle accepted in most European legal systems as well as in international instruments such as the UNIDROIT Principles and the CISG (Article 81(2)), on termination a party is entitled to restitution of the performance it has rendered under the contract only if that party is in a position to make concurrently restitution of the performance it has received from the other party. In the case at hand, since restitution in kind of the medical treatment A received from B was by its very nature impossible, A could not claim restitution of the fee paid. Consequently, B was condemned only to pay compensatory damages.

Fulltext

1-. Con atto di citazione, ritualmente notificato il 12/6/1999, Mevia Lx conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Torre Annunziata, Tizio Axx, per sentire accertare la sua grave negligenza, imperizia e imprudenza nella produzione dell'evento dannoso per cui è causa nonché per ottenerne la condanna sia al risarcimento, per tutte le lesioni subite, del danno patrimoniale, biologico e morale, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dal fatto al soddisfo, sia al pagamento delle spese mediche sostenute in conseguenza della sua condotta illecita.
A fondamento della propria domanda poneva il grave inadempimento del contratto d'opera professionale con essa stipulato dal convenuto nell’esercizio della sua professione di medico-odontoiatra, avendo quest'ultimo errato non solo nella diagnosi circa lo stato di salute in cui versava al momento in cui si affidò alle sue cure per sottoporsi all’incriminato intervento dentistico, ma anche nella scelta e nell'esecuzione di quest'ultimo, avendo il Tizio trascurato l'esistenza di gravi ed evidenti lesioni cistiche presenti nella zona interessata dall'intervento. In particolare, deduceva che, a causa dell'applicazione da parte del convenuto di una protesi fissa all’arcata dentaria superiore, riportava uno stato odontostamatico infettivo ed infiammatorio tale da impedire ogni tentativo di movimento mascellare fino a quando, rivoltasi ad altro odontoiatra, si sottoponeva, presso l'allora ASL NA ... di Nnnnn, ad un intervento chirurgico di osteoplastiva semimascellare destra e sinistra, previa estrazione di cinque incisivi superiori. Imputava, infine, al convenuto di aver negligentemente trascurato l'esistenza e la gravità delle su descritte lesioni cistiche, benché le stesse fossero evidenti alla luce dell'esame del referto radiografico da lui stesso prescritto in data 6.11.1996. Nonostante ciò, aveva proceduto ugualmente all’intervento di applicazione della protesi fissa che, per definizione, richiedeva il previo accertamento della inesistenza delle suddette lesioni, così provocando un fenomeno di flogosi cronica aspecifica, tale da causare la perdita di cinque incisivi superiori, oltre ad un protratto stato di sofferenza e disagio.
Instaurato il contraddittorio, si costituiva in giudizio Axx Tizio chiedendo il rigetto della domanda attorea perché inammissibile, improponibile ed infondata in fatto ed in diritto ed, altresì, domandando di essere autorizzato a chiamare in causa Kkkk S.p.A., società assicuratrice designata dal convenuto per coprire i rischi da responsabilità civile verso terzi, derivati dalla sua attività professionale. Nel dettaglio respingeva ogni addebito, difendendo la correttezza dell’iter terapeutico a cui aveva sottoposto l’istante, essendo stato lo stesso rispettoso delle linee guida dettate dai protocolli terapeutici all’epoca vigenti. Negava, infine, 1'esistenza del nesso di causalità tra l'intervento eseguito e le conseguenze lamentate dall'attrice, e cioè flogosi cistica e l’estrazione di cinque elementi dentari, poiché l'istante, avendo improvvisamente interrotto il piano terapeutico da lui programmato, aveva concorso in modo determinante ad aggravare le sue condizioni di salute, rendendo così necessaria l'esecuzione dell'intervento chirurgico aggressivo e demolitorio a cui fu costretta a sottoporsi presso la struttura ospedaliera del ASL Na ... e che, invece, avrebbe potuto evitare se si fosse attenuta alle sue prescrizioni.

[...]

7.- L'attrice ha anche domandato il ristoro del danno patrimoniale individuato sia nelle spese mediche che fu costretta a sostenere per riparare al danno arrecatole dall'intervento chirurgico eseguito dal convenuto, sia nel corrispettivo a quest'ultimo versato per la prestazione medica resale.
Tale voce di danno, sotto entrambi i profili, non può essere riconosciuta a Mevia.
In merito alla prima, è noto che l’art. 1223 c.c. circoscrive l'ambito del danno risarcibile secondo il criterio della cosiddetta "regolarità causale", nel senso che sono risarcibili non solo i danni che sono immediati e diretti ma anche quelli che sono mediati e indiretti, purché rientrino - secondo un giudizio di probabile verificazione - nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto (cfr. Cassazione civile, sez. II, 28/01/2000, n. 971).
Benvero, come sopra diffusamente esposto, il nominato esperto ha evidenziato che la preesistente patologia di cui soffriva 1'attrice al momento in cui si rivolse alle cure del convenuto, si caratterizzava per un'evoluzione difficilmente prevedibile, e quindi, anche ove 1'intervento conservativo eseguito dal Tizio fosse stato preceduto da un corretta diagnosi e si fosse atteso il tempo debito per procedere alla riabilitazione protesica, non poteva escludersi che successivamente sarebbe reso necessario 1'intervento demolitorio a cui Mevia fu in seguito sottoposta.
Non ravvisandosi dunque il necessario nesso di consequenzialità tra il costo di tale ultimo intervento e la condotta negligente imputata al convenuto, deve escludersi la possibilità di includere nel risarcimento richiesto dall’attrice anche tale voce di danno.
Ad analoghe conclusioni, sia pure in forza di una più articolata argomentazione, deve pervenirsi con riferimento alla pretesa restituzione del corrispettivo versato da Mevia al Tizio per le cure da quest'ultimo prestatele e, poi, rivelatesi del tutto inutili.
La domanda, così come prospettata, può essere ricompresa nell'ambito della pretesa risarcitoria spiegata dall'attrice con riguardo al danno costituito da un esborso di denaro rivelatosi inutile (o senza causa) in ragione dell'esito negativo della prestazione.
Siffatta impostazione, tuttavia, non e condivisibile.
Si omette, così ragionando, di considerare che la prestazione del medico e, com'è noto, un'obbligazione di mezzi e non di risultato (v., da ultimo, Cass., sez. 3a civ., 4400/2004), con la conseguenza che, una volta che la prestazione professionale sia stata adempiuta (seppur in modo inesatto), il corrispettivo non perde la sua causa nel vincolo sinallagmatico con quella medesima prestazione, salvo il risarcimento dei danni. Né, del resto, potrebbe ravvisarsi tale vincolo proprio nel rapporto tra corrispettivo ed attività/prestazione diligente cut il professionista sarebbe comunque tenuto, con la conseguenza che, nel caso in cui quella attività/prestazione non sia stata adempiuta in modo diligente (nella scelta dei mezzi idonei allo scopo della guarigione), il compenso dovrebbe essere restituito dal professionista.
Si può replicare, se è vero che la parte, avvalendosi di uno strumento posto a tutela del sinallagma contrattuale (art. 1460 c.c.), può in via preventiva sospendere l’adempimento della propria prestazione (anche) quando la prestazione dell'altra parte sia stata adempiuta in modo parziale o inesatto (exceptio non rite adimpleti contractus) ciò non significa che essa possa sempre chiedere, a titolo di risarcimento, la restituzione del corrispettivo pagato dopo avere accertato l'inesattezza della prestazione ricevuta. Nel caso di prestazioni esecutive di obbligazioni contrattuali (qual’è, senza dubbio, il rapporto avente ad oggetto un facere professionale), la sorte delle prestazioni rese non può prescindere dalla sorte del contratto in cui entrambe le prestazioni hanno causa, con la conseguenza che, in caso di (grave) inadempimento, le prestazioni eseguite saranno necessariamente assoggettate al regime delle restituzioni derivanti dall'effetto retroattivo della (eventuale) risoluzione del contratto (art. 1453 e 1458 c.c.).
E, in ragione del noto orientamento secondo cui 1'obbligo di restituzione (quando grava sia sulla parte incolpevole che sulla parte la cui inadempienza ha causato la risoluzione: v. Cass., sez. 2a civ., 587/1990) "integra un debito [...] del tutto distinto dal risarcimento del danno spettante in ogni caso all'adempiente" (Cass., S.U. civ., 5391/1995), risulta dimostrata l’estraneità delle restituzioni alle obbligazioni risarcitorie.
Neppure, del resto, potrebbe argomentarsi il contrario qualificando il diritto alla restituzione del corrispettivo sotto il profilo della tutela interesse negativo della parte ad essere tenuta indenne da una spesa inutilmente sostenuta, non dovendosi tutelare il suo interesse a fare affidamento nella conclusione e/o validità del contratto ma vertendosi qui nel diverso ambito dell’esecuzione di un contratto perfettamente valido.
Pertanto, al fine di conseguire la restituzione delle somme versate al convenuto per la prestazione medica poi rivelatasi priva di utilità, l'attrice non si sarebbe dovuta limitare a domandare il risarcimento del danno subito a causa dell'errore terapeutico e diagnostico commesso dal Tizio, ma avrebbe anche dovuto espressamente domandare la risoluzione del contratto con quest'ultimo stipulato.
Sennonché, costituisce ius receptum che la domanda di restituzione della prestazione effettuata, conseguente alla risoluzione del contratto per inadempimento, configura una domanda nuova rispetto a quella di risarcimento del danno, tanto con riferimento alla causa petendi, - integrando essa una richiesta di ripetizione di indebito, cui è tenuta, in ipotesi, anche la parte non inadempiente, che trova la propria causa nella prestazione effettuata e nel venir meno del suo titolo e non già in un comportamento colpevole fonte di responsabilità contrattuale -, quanto con riguardo al petitum, necessariamente limitato alla restituzione di quanto corrisposto e dei frutti percepiti (cfr. Cassazione civile, sez. III, 28/03/2006, n. 7083; in senso conforme cfr. Cass. 19 maggio 1993 n. 7829; Cass. 18 giugno 1991 n. 6880).
Ne discende che, pur essendo 1'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta un effetto naturale della risoluzione del contratto, non di meno sul piano processuale è necessario che la parte proponga specifica domanda ai fini di detti effetti restitutori, con la conseguenza che tale domanda non può ritenersi implicata nella domanda di risarcimento dei danni subiti a seguito dell'accertato inadempimento (cfr. Cassazione civile, sez. II, 02/02/2009, n. 2562; Cass. 20 ottobre 2005 n. 20257).
Ad abundantiam, infine, si osserva che, pur volendo ravvisare implicitamente la domanda di risoluzione del contratto (per inadempimento) in quella formulata di restituzione sia pure nella forma di danno risarcibile, la soluzione positiva non sarebbe del pari scontata, poiché la pretesa in oggetto viene indubbiamente ad intrecciarsi con la complessa tematica della restituzione dell'indebito allorquando il sinallagma contrattuale oggetto della pronuncia di risoluzione veda una delle prestazione legate dal vincolo di corrispettività, vertere su un obbligo di facere (v., in tal senso Trib. Roma, 2a sez. civ., n. 34688/2002, G. Detto c. T. Santarelli ed altri).
Alla tesi positiva aderisce quella giurisprudenza di merito la quale fonda il suo ragionamento su due argomentazioni.
Innanzitutto, il rigetto della domanda restitutoria contrasterebbe con 1'esigenza di salvaguardare il sinallagma tra le reciproche prestazioni. Se si ritenesse irripetibile 1'onorario versato dal paziente, infatti, quest'ultimo verrebbe costretto a pagare una prestazione inutile se non dannosa. Si consideri, del resto, che il controvalore pecuniario di una prestazione professionale che abbia arrecato un danno alla salute del paziente non può non essere pari a zero, e dunque per essa non sarebbe dovuto alcun corrispettivo.
In secondo luogo, v'è da considerare che, se prima della risoluzione del contratto il cliente ancora non abbia pagato l’onorario professionale, egli potrebbe legittimamente rifiutare tale pagamento, ai sensi dell'articolo 1460 c.c.. Appare pertanto illogico, a fronte dell'inadempimento del professionista, consentire al cliente di non pagare l’onorario se il contratto e ancora in vita, e farglielo perdere se il contratto è risolto.
Deve, pertanto, concludersi, - affermano i sostenitori della predetta tesi -, che il paziente non è tenuto a versare al medico libero professionista il corrispettivo pattuito e, se versato, ha diritto a pretenderne la restituzione, quando l'intervento sia stato eseguito in modo imperito (Trib. Roma 20.10.2003, in Giurispr. romana, 2004, fasc. 12).
Tuttavia, a parere dello scrivente, la soluzione opposta appare preferibile, in quanto fondata su una serie di osservazioni che considerano, sul piano prettamente giuridico, le implicazioni della condictio indebiti allorquando la stessa sia invocata in un rapporto di natura sinallagmatica, senza indulgere, come la precedente tesi, in rilievi e in considerazioni di natura chiaramente economica.
Secondo una prima impostazione, le obbligazioni restitutorie (derivanti da caducazione del contratto) sarebbero indipendenti 1'una dall'altra, con conseguente irrilevanza dell'eventuale squilibrio cui potrebbero dar luogo le restituzioni nei casi di impossibilità, anche solo parziale, di una delle due obbligazioni. A questa teoria si può forse ricondurre 1'antica idea della risoluzione come avveramento di una condizione risolutiva implicita (art. 1184 code civil e 1165 cod. it. del 1865), che ne realizza 1'effetto retroattivo come conseguenza di un azzeramento del rapporto contrattuale e dell'applicazione integrale del regime, peraltro richiamato anche dagli art. 1463 e 1422 c.c., di ripetizione dell'indebito di cui all'art. 2033 s. c.c.. Tuttavia, non si ignorano in questa prospettiva le difficoltà, rilevate da una parte della dottrina, circa la possibilità di equiparare, secondo le regole della ripetizione dell'indebito, il contraente inadempiente all’accipiens di mala fede ed il contraente adempiente all’accipiens in buona fede (v., sul punto, anche Trib. Milano, 4.1.1999, in Resp. civ. e prev., 1999, 1349).
Questa impostazione, tuttavia, è stata superata perché ritenuta non soddisfacente rispetto ad ipotesi peculiari.
Allo scopo di evitare che, quando il contratto sia stato eseguito da entrambe le parti ed una di esse non sia (per varie ragioni) in grado di restituire in modo integrale la prestazione ricevuta, la restaurazione dello status quo ante possa condurre a risultati iniqui, gli ordinamenti europei (si veda il caso esaminato da Cass., sez. 3a civ., 4849/1991) si ispirano, con adattamenti e fatta eccezione per casi particolari, alla c.d. Saldotheorie secondo cui le obbligazioni restitutorie risultano reciprocamente condizionate, nel senso che ciascuna parte sarà tenuta a restituire quanto ricevuto nella misura in cui la controparte sia in grado di adempiere al suo obbligo restitutorio, cioè il creditore della prestazione restitutoria deve detrarre dal proprio credito un ammontare pari alla prestazione restitutoria divenuta impossibile.
Come osservato da autorevole dottrina, quelle restitutorie sono obbligazioni contrattuali con segno invertito governate dal principio di corrispettività.
Pertanto, quando una delle due prestazioni è ontologicamente irripetibile (com'è la prestazione professionale resa dal medico), il corrispettivo pecuniario versato dalla controparte è anch'esso irripetibile, pena l’alterazione del vincolo sinallagmatico che governa le obbligazioni restitutorie, a meno che non si voglia riconoscere al professionista, come corrispettivo del compenso (da lui) restituito, il pagamento del tantundem pecuniario della propria prestazione (v. infra), il che non sembra ragionevole né condivisibile sul piano della comprensibilità dei rimedi contrattuali.
Si estende così, in altri termini, alle obbligazioni secondarie (restitutorie) la regola per cui se la prestazione di una parte diventa impossibile in tutto o in parte anche la controparte è liberata in modo corrispondente (art. 1463-1464 c.c.). La corrispettività delle obbligazioni restitutorie, del resto, è estranea al regime della ripetizione dell'indebito che, a quel fine, ammette la restituzione anche delle prestazioni di facere (non dovute) sia pur sotto forma di pagamento dell'equivalente pecuniario (v. Cass., sez. 3a civ., 6245/1981; sez 3a civ., 2029/1982).
In altre parole, la soluzione propensa a riconoscere la fondatezza della pretesa restitutoria anche quando la controprestazione sia costituita da un facere considera in termini unitari il sistema delle restituzioni che sarebbe improntato ad una considerazione "isolata" di ciascuna prestazione restitutoria.
L'orientamento opposto, viceversa, distingue nell'ambito del sistema delle restituzioni due ipotesi: da un lato l'art. 2033 c.c., riferibile alle sole condictiones sine causa; dall'altro le condictiones ob causam finitam.
La fonte della restituzione, in questo secondo caso, è il contratto a prestazioni corrispettive, sicché tale corrispettività vien mantenuta anche per le prestazioni restitutorie.
La giurisprudenza tende a questa seconda soluzione (v. a conferma Cass. 4849/91, sulla nullità; sulla risoluzione v. T. Roma, 11.7.04, Corr. Giur., 2004, 1502; v. anche T. Milano, 4.1.99), ed ha ricordato (T. Roma, 4.1.99), che alla stessa si adeguano i più recenti interventi transnazionali (Principi Unidroit; ma v. anche art. 81, co.2 della convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili).
Ritiene, allora, questo giudice che il codice italiano non porti argomenti testuali così esplicitamente adesivi alla prima costruzione sistematica, da impedire una ricostruzione interpretativa nel secondo senso.
In punto di nullità, non v'è alcun richiamo espresso agli artt. 2033 ss. c.c. (si fa riferimento ex art. 1422 c.c. all'azione di ripetizione; ed è un termine usato non in senso tecnico, ovvero con riferimento alla "ripetizione" d'indebito, se è vero che l’art. 1443 c.c. parla, ad esempio, di restituzione). Un riferimento espresso alla ripetizione dell'indebito si ha solo nell'art. 1463 c.c.: ma si tratta di norma in un certo senso obbligata. Qui, infatti, 1'impossibilità di una delle due prestazioni, già fa venir meno la corrispettività in sede di esecuzione, e quindi - necessariamente - non può esservi corrispettività in sede di restituzione. È dunque evidente (e anzi necessitato), in tali ipotesi, il ritorno al principio di considerazione "isolata" della restituzione, secondo il modello degli artt. 2033 ss. c.c..
Detto altrimenti, come la fonte (il contratto) non ha prodotto alcuna corrispettività in fase esecutiva, del pari non potrà quella stessa fonte produrre alcuna corrispettività in fase restitutoria.
L'adesione dunque alla seconda impostazione (siccome garante di maggiore equità di effetti pratici: evitare ingiustificati arricchimenti) porta, viceversa, ad escludere l’accoglimento della pretesa restitutoria avanzata dalla parte che abbia ricevuto una prestazione di facere a fronte di una controprestazione pecuniaria.
In conclusione, tornando alla odierna fattispecie, anche ove si fosse ritenuta implicita la domanda di risoluzione e restituzione nella prospettazione attorea volta a conseguire esclusivamente il risarcimento dei danni subiti, la pretesa restitutoria del compenso corrisposto dall’attrice al convenuto, per le esposte ragioni, non sarebbe stata comunque accolta.
Alla luce delle considerazioni svolte, Tizio Axx va condannato al pagamento in favore dell'attrice dei danni da lei subiti e liquidati nella somma complessiva di € 15.000,00, all'attualità.

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Source

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